CINEMA TEATRO FILO


GIO 8 FEB - ORE 21.00
VEN 9 FEB - ORE 18.30 / 21.00
SAB 10 FEB - ORE 18.30 / 21.00

DOM 11 FEB - ORE 16.00 / 18.30
LUN 12 FEB - ORE 21.00
MER 14 FEB - ORE 21.00 - 6 EURO
FINAL PORTRAIT
L'ARTE DI ESSERE AMICI
Regia di Stanley Tucci.
Un film con Geoffrey Rush, Armie Hammer, Tony Shalhoub, Sylvie Testud, Clémence Poésy, James Faulkner.
Genere Biografico - Gran Bretagna, 2017, durata 90 minuti.

Parigi, 1964. L'artista svizzero Alberto Giacometti gode di successo indiscusso, ma questo non lo distoglie da una vita disordinata, sempre ai limiti della decenza e dell'igiene. Giunto nella capitale francese, lo scrittore americano James Lord gli commissiona un proprio ritratto. L'uomo pensa sia questione di pochi giorni ma - data la natura mercuriale di Giacometti - l'opera diventerà un'impresa nel tempo e nella pazienza del giovane. Dopo una ventina di giorni Lord ripartirà con il quadro, rimasto inevitabilmente incompiuto.


L'incompiutezza è nella natura dell'arte. Ne era convinto Alberto Giacometti che trascorse l'intera sua esistenza a fare e disfare le proprie opere, senza mai ritenerle soddisfacenti. 

Stanley Tucci, al suo quinto lungometraggio da regista, raccoglie le suggestioni del grande scultore e pittore condividendole in un film totalmente devoto alla ciclicità del processo creativo. Alla base del soggetto il diario di James Lord, "A Giacometti Portrait", in cui l'americano descrisse nei minimi dettagli quei 18 giorni trascorsi con Giacometti nel suo atelier parigino.
L'intenzione di Tucci è evidente fin dalla prima inquadratura, incorniciata nel bianco di una personale sull'artista dove egli compare seduto in atteggiamento depresso ai piedi del suo cognome autografato sulla parete: ciò che apparirà sul grande schermo è il tentativo di catturare un frammento del classico binomio contaddittorio di genio riconosciuto e impenitente sregolatezza. Giacometti si rivela nello sguardo di Tucci quale c reativo totale, artigiano maniacale e paranoico, instabilmente lucido e maledettamente inaffidabile come uomo. Il contraltare è l'eleganza ordinata del borghese moderno, dello yankee bello come un top model, vera e propria stravaganza nel Caos ontologico dell'atelier giacomettiano.


Ad eccezione di qualche chiacchierata peripatetica al cimitero e un'uscita al caffè vicino, i due si incontrano quotidianamente nello studio dell'artista dove solamente altri tre esseri umani hanno diritto di entrata: il fratello Diego Giacometti, la moglie Annette e l'amante Caroline. Anche la mdp di Tucci si "regolamenta" nella struttura diaristica delle sedute di Lord, "spiando" ogni piccolo gesto su mani e volti tanto del soggetto indagatore (l'artista) quanto dell'oggetto indagato (il modello); ma è proprio in questo meccanismo che ci accorgiamo che i ruoli possono invertirsi: il modello diventa "lo spione" (citando le parole di Lord) di colui che lo ritrae. È in tal modo che Final Portrait - di fatto l'ultimo ritratto realizzato da Giacometti prima di morire - si organizza quale disvelamento del meta-sguardo-incrociato messo in atto dal cinema quando è chiamato a confrontarsi con altre forme espressive e rappresentative. Se tale, accanto alla sempre ottima performance di Geoffrey Rush nei panni di Giacometti, è il punto di valore del film di Tucci, la sua pur giustificata schematicità strutturale ne identifica la debolezza più vistosa, laddove si poteva auspicare un'audacia più "giacomettiana".


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